Eretico, avventuriero, giustiziere, eroe rivoluzionario, frate di tenace concetto e uomo dall'animo irrequieto, è fra Diego La Matina, la cui storia – degna di un romanzo – ha ispirato penne eccellenti come quelle di Natoli, Pedalino Di Rosa, Sciascia.
Palermo, 17 marzo 1658. Quella mattina la città si svegliò con i rintocchi a morto delle campane. Una folla composta da gentildonne, gentiluomini, autorità, prelati e popolani, attirati dalle promesse d'indulgenze, si era adunata di buon mattino davanti l'ingresso del Tribunale dell'Inquisizione, l'antico palazzo dei Chiaramonte noto a tutti col nome di Steri. Dal grande portone sarebbe uscita la solenne processione – il cosiddetto spettacolo del Sant'Offizio – quella pubblica cerimonia denominata Atto di Fede (o Auto da Fé) che avrebbe mostrato i rei accusati di eresia, entrati nelle carceri e di cui non si era saputo più nulla, e sentenziato sulla loro condanna.
Eretici, giudaizzanti, luterani, protestanti, penitenziati, riconciliati, condannati al rogo, streghe e bestemmiatori – scalzi e con indosso la mitra o il sambenito – attraversando la via Toledo, avrebbero raggiunto il piano della Cattedrale, addobbato con palchi e una croce rizzata al centro.
Il lungo corteo dei colpevoli, fatto di accelerazioni e pause, era seguito dalla carrozza degli inquisitori – circondata da familiares a cavallo e in tenuta di gala – dalle confraternite, ed infine da vescovi, cappellani, ordini religiosi, preti, magistrati, cavalieri, paggi e corporazioni. Giunti al Piano della Cattedrale gli inquisitori prendevano posto sui palchi, mentre i rei, con in mano una candela spenta, salivano sul tablado per leggere l'abiura e ascoltare la sentenza letta dal pulpito.
Tra questi v'era un uomo, un frate agostiniano nativo di Racalmuto, chiamato Diego La Matina.
Nel 1644, fra Diego era stato accusato di banditismo dal vescovo di Girgenti. Arrestato e condannato alle galere, durante la rivolta capeggiata da Giuseppe d'Alessi nel 1647, riuscì a fuggire. Poco dopo, però, fu nuovamente catturato, rimandato alle galere e infine, nel 1649, rinchiuso nelle segrete dello Steri. Il suo calvario, che lo vide entrare e uscire dalle carceri dell'inquisizione per ben 5 volte, durò quattordici anni; una lunga prigionia, non priva di torture e aggravata da capi di imputazione sempre più pesanti: blasfemia, ingiuria, eresia, disprezzo delle sacre immagini e dei sacramenti. Una detenzione ingiustificata e arbitraria che contrastava con la sentenza del 1656 emanata dal Tribunale di Madrid, che imponeva il trasferimento del frate presso un convento dove, segregato, avrebbe dovuto scontare la sua pena.
La mattina del 24 luglio 1657 venne chiamato per l'ennesimo colloquio privato, con annessa tortura, da monsignor Juan Lopes de Cisneros. Portato di fronte al suo aguzzino, con i ceppi ai polsi ed esasperato dal lungo isolamento, riuscì ad impadronirsi di uno dei ferri disposti sul tavolo. In pochi attimi Diego si scagliò su Cisneros, colpendolo ripetutamente alla testa. Il segretario, testimone atterrito della scena, riuscì a fuggire mentre l'inquisitore, a causa di una grave emorragia, morì dopo alcuni giorni di terribile agonia.
Quell'episodio, maturato da tempo nella mente di Diego come un disperato gesto di liberazione, riaccese tuttavia i propositi del Sant'Offizio che, dopo ben diciotto anni dall'ultimo rogo, inviò i banditori per i vicoli della città di Palermo per annunciare che, domenica 17 marzo, vi sarebbe stato spettacolo dell'Atto di Fede.
Quella mattina, dal pulpito allestito al piano della Cattedrale, un frate domenicano lesse la sentenza: “Diego La Matina, eretico impenitente, viene per sentenza rilassato in persona, addì 17 marzo 1658”.
Nel tragitto verso il Piano di Sant'Erasmo, la folla continuò a seguire il condannato. Giunti fra Diego entrò dentro lo steccato apparecchiato intorno a una colonna e ad una catasta di legna da ardere; ai lati i palchi per le magistrature e il clero. Il boia avvicinatosi, dopo un breve sguardo al condannato, gettò sulla catasta un bastone acceso tanto da far guizzare subito le fiamme che proseguirono tutta la notte.
La storia di fra Diego La Matina, così densamente avvolta dalle sfumature di eresia, ingiustizia e ribellione, è un vivido promemoria delle tensioni tra ortodossia e dissidenza, tra il desiderio di riforma e la rigida conservazione dello status quo religioso e sociale; emerge dal passato interpellando la nostra percezione della giustizia e del coraggio individuale. In lui si riflettono la metafora della lotta perpetua per l'autonomia di pensiero, della libertà di espressione e l'archetipo dell'eroe tragico, il cui destino è irrimediabilmente intrecciato alle macchinazioni di un potere oppressivo che Max Frisch definì così: «Tolleranza è sempre indice di potere sicuro; quando si sente in pericolo, nasce sempre la pretesa di essere assoluto; nasce dunque la falsità, il diritto divino del mio privilegio, l'inquisizione».
Quella di Diego La Matina è una figura che incarna la resistenza ad un'autorità che si erge a giudice assoluto delle coscienze, che trasforma la religione in uno strumento di potere piuttosto che di redenzione. Mentre la sua morte, avvenuta in un atto pubblico di esecuzione che mescolava la solennità religiosa con la crudeltà dello spettacolo, sollecita riflessioni universali sui temi del coraggio, della resistenza umana, della libertà e del diritto/necessità di opporsi all'oppressione – sia essa religiosa, politica, sociale – il suo operato rimane un potente monito e un invito a non cessare mai di interrogare e sfidare le autorità che pretendono di definire la verità e la moralità a discapito dell'individuo.
L'articolo è a cura della redazione di TACUS Arte Integrazione Cultura. Le immagini inserite nel collage sono tratte dal web. La copertina del presente articolo è stata generata mediante un programma di AI.
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