Vincenzo Ragusa, scultore errante tra due mondi
- Tacus Associazione
- 6 lug
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«La vera casa di un artista non è qui né altrove, ma in quella linea sottile tra due mondi che non si toccano mai, e che solo l’arte riesce a unire»
Nel panorama della scultura italiana del secondo Ottocento, la figura di Vincenzo Ragusa continua a proporsi agli studiosi come presenza insieme ingombrante e sfuggente. Nato a Partanna, l’8 luglio 1841, nella Sicilia che fu officina di patriottismi e passioni risorgimentali, Ragusa nutrì fin da subito un’idea dell’arte come impegno civile, non come mera decorazione borghese.
La sua adesione alla spedizione garibaldina ne è già un segno eloquente: un uomo che vedeva nel gesto artistico una leva per la dignità collettiva. Eppure, la sua vicenda è più complessa e tragica di quanto l’etichetta di “scultore accademico” lasci intendere. In questo termine — accademico — si annida l’ambivalenza della sua fortuna critica: è vero che Ragusa operò entro schemi figurativi tradizionali, ma fu anche uno dei pochi artisti italiani capaci di misurarsi con il mondo, di guardare oltre l’orizzonte e di compromettersi in un progetto culturale più ampio della propria firma.
Palermo e il peso della tradizione
Formatosi a Palermo sotto la guida di Salvatore Lo Forte, Ragusa respirò un ambiente in cui la scultura si concepiva ancora come statuario monumentale e testimonianza civica.
I busti dei notabili, i monumenti e le tombe realizzati nei decenni centrali della sua carriera testimoniano la mano di un onesto professionista, che padroneggia il mestiere ma non riesce a scardinare i vincoli di un linguaggio già allora logoro e retorico.
Il busto del prof. Pietro Martini (1872) e la statua equestre di Garibaldi a Palermo (1892) mostrano un’abilità tecnica che resta, però, confinata nei canoni dell’accademia: eleganza, somiglianza, compostezza, ma nessuna rottura. E proprio qui si rivela una prima contraddizione: Ragusa, che era un uomo irrequieto e cercava altrove la propria dimensione, non seppe accontentarsi di una carriera provinciale, mentre la sua arte, che non fu mai davvero innovativa, si contrapponeva alle sue scelte di vita, coraggiose e proiettate verso il futuro.
La Restaurazione Meiji e Tokyo come laboratorio di trasformazioni
Quando salpò, nell’autunno del 1876, per insegnare alla Kōbu Bijutsu Gakkō, il Giappone stava vivendo una stagione febbrile e unica nella sua storia: la Restaurazione Meiji.
Il giovane imperatore, che aveva appena quattordici anni al momento dell’ascesa al trono, incarnava una nazione determinata a riscrivere se stessa e a spalancare le proprie porte al mondo dopo secoli di isolamento, mentre Tokyo, sospesa tra le architetture severe dell’epoca Edo e i primi cantieri della modernità, diventava un crocevia di rinnovamenti sociali, politici ed economici.
In questo clima di “fame di futuro” — sconosciuto all’Italia di quegli anni — Ragusa trovò terreno fertile per le proprie intuizioni. Fece parte di un gruppo selezionato di artisti e tecnici occidentali chiamati dal governo giapponese, i cosiddetti oyatoi gaikokujin, veri ambasciatori culturali incaricati di accompagnare il Giappone verso una nuova epoca. Così, la sua avventura non fu soltanto una scelta individuale, ma una pagina di storia mondiale, in cui il dialogo tra civiltà si fece pratica quotidiana e arte viva.
L’esperienza giapponese: utopia interrotta
In Giappone, la sua sensibilità di artista-artigiano colto e curioso trovò lo spazio ideale: portò con sé la fusione del bronzo e un linguaggio inedito, il gusto per il ritratto realistico e per la verità psicologica dei volti, aprendo agli studenti nipponici la porta sul naturalismo occidentale.
I suoi ritratti — attori, carpentieri, donne comuni — oggi conservati a Tokyo testimoniano questa silenziosa rivoluzione, che segnò la nascente arte moderna giapponese. In queste teste, in questi corpi, pulsa la sua poetica: un’arte che non si limita a rappresentare, ma tenta di svelare l’animo umano.
A differenza di tanti altri oyatoi gaikokujin, Ragusa, che sentiva di essere straniero ovunque e avvertiva un profondo desiderio di appartenenza, scelse di legare il proprio destino a quello di Tama Kiyohara, sposandola come si sposa non solo una donna, ma un intero mondo.

Il sogno del museo: una museologia interculturale
Ragusa non fu soltanto scultore, ma anche visionario ideatore di una forma inedita di didattica museale. Durante il soggiorno giapponese raccolse, con metodo e passione, oltre quattromila oggetti d’arte e artigianato. Tornato in Sicilia, fece di quella collezione il cuore di un museo giapponese allestito a Palermo: undici sale concepite non per stupire, ma per educare, per avvicinare i giovani artisti siciliani alle tecniche e al gusto orientali.
Tale visione — che oggi definiremmo interculturale e didattica — resta documentata in quella raccolta straordinaria, frutto di uno sguardo curioso e metodico. Tuttavia, in lui si coglie anche la sottile arroganza dell’“occidentale civilizzatore”, incapace di penetrare la profondità di una cultura che rimaneva ai suoi occhi più materia da classificare che da interpretare: una raccolta enciclopedica che, pur preziosa, non riesce a restituire la poesia e l’anima della tradizione giapponese.
Il ritorno e la disillusione
Rientrato in Sicilia nel 1882, Ragusa non riuscì a reinventarsi. L’entusiasmo che lo aveva accompagnato nel progettare una nuova stagione artistica svanì presto, lasciando spazio a un senso amaro di estraneità e fallimento. La Scuola-Officina di Arti Orientali, fondata con slancio e idealismo, venne rapidamente assorbita dal più convenzionale Istituto d’Arte, mentre il Museo Giapponese fu smantellato nel silenzio quasi generale.
Palermo, che non aveva saputo né capirlo né accoglierlo davvero, lo restituì a quella condizione di straniero che già aveva sperimentato altrove. Eppure, in alcune opere tarde — La Preghiera per la Tomba Gioia o il gesso Verso il Paradiso — affiora una nota diversa: una dolcezza intensa, un realismo capace di accogliere la fragilità umana. Lavori che mostrano la mano di un artista maturo, capace di penetrare non solo le sembianze, ma la verità profonda dei suoi soggetti, come se, in mezzo alla disillusione, la sua arte avesse finalmente trovato un linguaggio intimo e sincero.
Tra oblio e attualità: una lezione per il futuro
Oggi, nel silenzio che avvolge il suo nome, continua a risuonare la malinconia di un artista che non trovò mai una vera casa, né in Occidente né in Oriente. La sua vicenda umana e artistica, fragile e potente insieme, ci ricorda che l’arte non si nutre soltanto di rivoluzioni stilistiche, ma anche di uomini capaci di abitare i margini, esplorare le terre di mezzo, sostare nei confini mobili in cui le culture si sfiorano.
In un’epoca come la nostra, che sembra riscoprire ogni giorno il valore del dialogo interculturale, Vincenzo Ragusa ci appare per ciò che fu davvero: un precursore, un artista errante, un tessitore di legami. La sua figura ci ammonisce che la vera patria dell’arte non coincide con il luogo da cui si parte, né con quello a cui si giunge, ma con il viaggio stesso, che si nutre di incroci, disorientamenti e di un’inesausta sete di senso.
L'articolo è a cura della redazione di TACUS Arte Integrazione Cultura.
Le immagini dei collage sono state generate mediante un programma di AI
Il presente contributo si fonda sulle principali ricognizioni bibliografiche disponibili, tra cui i saggi di Loretta Paderni, Olimpia Niglio e Carmelo Bajamonte.
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