La leggenda delle Teste di Moro
- Tacus Associazione
- 4 giorni fa
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Archetipi di passione e morte nel paesaggio culturale siciliano
In molte case siciliane non è raro imbattersi in peculiari oggetti ceramici dalla forte valenza simbolica e ornamentale: si tratta delle Teste di Moro, vasi ceramici antropomorfi raffiguranti una coppia – un uomo e una donna – la cui iconografia, pur nella molteplicità delle varianti, tradisce un'origine comune fatta di dramma, seduzione e memoria. I volti, talora esotici, barbuti e turbati, talaltra delicati e nobili, evocano una storia antica che si è sedimentata nel tessuto culturale isolano sino a trasformarsi in simbolo duraturo dell’identità mediterranea.

Noti con il nome di graste (1) – dal dialettale “grasta” che indica un vaso per piante, tipicamente in terracotta o ceramica, usato per decorare balconi, cortili e giardini – questi manufatti, espressione dell’artigianato siciliano, incarnano una tradizione immaginifica che affonda le proprie radici nella Sicilia medievale e si colloca al crocevia di culture, dominazioni e scambi interculturali.
La loro origine leggendaria si struttura attorno a un intreccio di tematiche universali: eros e thanatos, amore e tradimento, possesso e punizione. È proprio questa tensione – tra l’istinto amoroso e la sublimazione rituale della morte – a conferire alle Teste di Moro il carattere di oggetti narranti, capaci di trasmettere una memoria culturale attraverso una forma plastica.
Le tre genealogie del mito
All’interno del corpus mitologico siciliano, le narrazioni che si contendono l’origine sono tre, ciascuna afferente a un contesto specifico – storico, letterario o folklorico – ma accomunate da un medesimo impianto archetipico.
La versione palermitana: amore e basilico alla Kalsa
Nel quartiere storico della Kalsa – l'antica Al-Ḥālisa islamica – si narra che una giovane donna di straordinaria bellezza si innamorò di un giovane moro. Il loro amore fu immediato, ma destinato alla tragedia: quando la fanciulla scoprì che l’amante sarebbe tornato in Oriente dalla propria famiglia, fu colta da un furore geloso. Nella notte, lo uccise, lo decapitò e, in un gesto rituale e simbolico, ne trasformò la testa in un vaso per coltivare basilico (2).
La straordinaria rigogliosità della pianta, forse nutrita da lacrime e rimorso, attirò l’attenzione dei vicini, i quali iniziarono a riprodurre il vaso, segnando così la nascita della tradizione delle cosiddette Teste di Moro.

Il Decameron di Boccaccio: la Lisabetta di Messina
Una variante letteraria del mito si rinviene nel Decameron in cui Giovanni Boccaccio narra la storia di Lisabetta da Messina, giovane nobildonna che si innamora del servo Lorenzo. Quando i fratelli scoprono la relazione, uccidono l’uomo e occultano il cadavere. Lisabetta, guidata da un sogno, dissotterra il corpo e ne taglia la testa, che nasconde in un vaso di basilico, innaffiato dalle proprie lacrime. Quando i fratelli scoprono il contenuto, fuggono da Messina, mentre Lisabetta, consunta dal dolore, muore di crepacuore.

La variante trapanese: la vendetta di Felice Serisso
Speculare e complementare è la leggenda trapanese, narrata dal monaco Benigno di Santa Caterina, legata alla figura del corsaro Felice Serisso. In questa versione, Serisso, in viaggio per mare, al suo ritorno scopre il tradimento della moglie con uno schiavo saraceno. Dopo averli inseguiti fino in Barberia, li uccide entrambi e porta a Trapani la testa della moglie, che espone pubblicamente come atto di vendetta e riaffermazione dell’onore.
In una variante ancora più teatrale, Serisso viene reso schiavo dalla coppia e riesce a vendicarsi dopo essere stato, ironicamente, acquistato proprio dai suoi traditori.
A Trapani, in via Serisso, sopravvive ancora oggi una scultura marmorea raffigurante una testa femminile, ritenuta memoria tangibile della leggenda.

La potenza simbolica della decapitazione amorosa
In tutte le varianti, la testa recisa diviene medium simbolico attraverso cui si elabora un trauma individuale e collettivo: un totem rituale, nonché un feticcio memoriale e contenitore del lutto. Che si tratti di una testa trasformata in vaso – come nella versione palermitana e boccaccesca – o di una testa esposta come monito – come nel caso trapanese – il gesto della decapitazione, secondo una valenza ambivalente, è al contempo distruzione e creazione, vendetta e memoria, annientamento e immortalità.
La pianta di basilico coltivata nella testa dell’amato perduto, si configura come emblema vegetale della fertilità trasmutata, eco di un culto ancestrale in cui i morti nutrono la terra e tornano alla vita sotto forma di piante. Laddove invece la testa viene esposta nella pietra, come in via Serisso, essa si configura come dispositivo visivo e urbano di ammonimento morale, in continuità con le pratiche punitive medievali.

La ceramica come eternità fragile
Le Teste di Moro, lungi dall’essere semplici souvenir o oggetti folklorici, rappresentano dunque un sofisticato esempio di mitopoiesi mediterranea, traducendo in forma estetica il bisogno umano di dare forma al dolore, di trattenere ciò che fugge, di fissare l’istante della perdita in una materia resistente ma fragile: la ceramica.
Che si tratti della fanciulla della Kalsa, della Lisabetta di Boccaccio o del corsaro Serisso, tutte le narrazioni ruotano attorno a un medesimo gesto: la decapitazione come estremo atto d’amore e possesso. Un atto che, proprio perché insostenibile nella realtà, viene sublimato nell’arte, permettendo alla comunità di esorcizzarlo, conservarlo e contemplarlo.
Note
(1) Presumibilmente dall’arabo "gharraṣ", che designa il gesto del piantare, o con g(h)arasah (غَرَسَ), che significa appunto "piantare" o "mettere a dimora".
(2) Pianta regale e sacra all’amore
L'articolo è a cura della redazione di TACUS Arte Integrazione Cultura.
Le immagini dei collage sono state generate mediante un programma di AI
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