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Matteo Bonello e la leggenda dell'Elsa

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 6 ago
  • Tempo di lettura: 4 min

La leggenda di una spada e di un delitto di Stato

Ci sono storie che non si lasciano seppellire, perché caparbie restano aggrappate alla carne della città come spine nel fianco, insinuandosi tra i portoni anneriti dal tempo o annidandosi nei nomi delle strade come cicatrici incise nella pietra. Una di queste è via Matteo Bonello, che sussurra ancora il nome di un uomo, di un delitto e di una spada conficcata nel legno.


Sul battente destro del portone di Palazzo Arcivescovile, basta sollevare lo sguardo per notare, rugginosa e silenziosa, un'inquietante reliquia e al tempo stesso un monito: l’elsa della spada di Matteo Bonello.


La leggenda – perché di leggenda si tratta, benché i cronisti la vestano da storia – racconta che sia ciò che resta dell’arma con cui il Bonello, barone di Caccamo, nella notte di San Martino del 1160, trafisse e uccise l’Ammiraglio Maione da Bari.

Ma nessuna leggenda che si rispetti è mai univoca.


Sangue sull’Angelo

Il nome di Bonello – uomo di furore e orgoglio, temprato dalla guerra e cresciuto tra le ombre del potere – era temuto e rispettato. Aveva tutto ciò che un uomo poteva desiderare: terre, lignaggio, fama, ma gli mancava l’unica cosa che rende un potente veramente libero: il dominio sul proprio destino.


Majone da Bari, primo ministro del Re normanno Guglielmo I – detto il Malo – vedeva nel barone tanto una minaccia quanto un’occasione. Così gli offrì in sposa sua figlia, nella speranza di ammansirlo con il vincolo del sangue. Ma Bonello, già preso dall’amore per Clemenza, figlia naturale del defunto Ruggiero II, rifiutò l’alleanza. In quel gesto vi era già l’eco della ribellione. Offeso, il Ministro lo mandò in Calabria per sedare un gruppo di nobili inquieti. Ma fu lì, in quella terra già lacerata da sussurri di rivolta, che Bonello trovò nuove fiamme da alimentare.


Accanto al nobile Ruggero Marturano, e con l’orecchio attento ai viceré, covando vendetta come brace sotto la cenere, congiurò. Tornato a Palermo, finse la pace, scrisse a Majone parole di miele, rassicurandolo che la missione era compiuta, i baroni domati e il matrimonio desiderato. L’Ammiraglio, forse stanco di guerra, abboccò.


Fu così che il lupo rientrò nell’ovile, ma non per inginocchiarsi.


Il veleno e l’inganno

Ad attenderlo, nel cuore della città, vi era l’arcivescovo Ugo. Malato, perseguitato e sospettoso, aveva compreso che Majone tramava anche contro di lui. Confidò al Bonello che non osava toccare cibo né vino, se non dopo averli fatti assaggiare a un servitore. Sapeva – e non senza fondamento – che l’Ammiraglio cercava di avvelenarlo.


Majone, intanto, non si capacitava. Perché il veleno non aveva ancora agito? Quale errore era stato commesso? Deciso ad eliminare l'arcivescovo, si risolse a fargli personalmente visita, portando con sé la morte sotto le vesti di una medicina. Ma Ugo, astuto e diffidente, evitò accuratamente ogni assaggio, sospettando in cuor suo l’inganno. E mentre il Ministro si logorava in vani discorsi, il prelato riuscì a inviare un messaggio segreto a Bonello: "era giunta l’ora" dell’azione.


Bonello non esitò e la trappola fu tesa con precisione. I suoi uomini si appostarono lungo la via coperta che univa la casa dell’Arcivescovo al Palazzo Reale, quel corridoio d’ombra che correva tra la Cattedrale e il vecchio fiume Papireto. Nessuna via di fuga, nessuna salvezza.


Quando Majone lasciò il palazzo, alcuni dignitari tentarono di avvisarlo, ma qualcosa nei loro occhi lo mise in allarme. Si fermò e voltandosi verso le ombre venne raggiunto da Bonello che sembrò emergere dalle tenebre con la spada levata. Il primo colpo fu parato, ma i successivi colpirono con furia. Majone crollò e con lui una parte del potere.


Il trofeo inchiodato

Si racconta che Ugo accolse la notizia con un sorriso. Dopo aver preteso la spada, la fece inchiodare sul portone del Seminario come monito eterno, segno che la giustizia – o ciò che ne rimaneva – sapeva ancora colpire; emblema di una vendetta consumata in nome dell’ordine divino e del potere umano.


Ma quella spada – o ciò che ne resta – è davvero ciò che si racconta?

Gli storici dubitano. Carmelo Piola, nel suo Dizionario delle strade di Palermo (1870), osserva che l’elsa “a vela” risalirebbe al XVI secolo, ben dopo l’epoca di Bonello. Secondo lui, si tratterebbe di un’antica insegna di giurisdizione criminale: lo ius gladii, ovvero il “diritto di spada” esercitato dagli ecclesiastici sui membri del clero. Eppure, nessun cronista antico – né Villabianca, né Di Giovanni – si sofferma su quella spada.


L’elsa: simbolo, ferita, monito

Ma cos’è, in fondo, un’elsa? Parte di un’arma, certo, ma anche il punto in cui la mano incontra il metallo, dove l’intenzione si fa gesto e il potere si incarna nella lama.


In quella che oggi riposa sul portone del Seminario Arcivescovile, l’elsa è molto più di un frammento arrugginito: è simbolo polisemico, doppio e contraddittorio, come la storia che rappresenta. È insieme croce e ferita, giuramento e condanna. La sua forma evoca la bilancia della giustizia e l’atto irrevocabile dell’esecuzione; ultimo frammento visibile di una ribellione soffocata, di una verità tagliente, di un potere che ha il volto dell’ordine ma il cuore nel disordine.


Inchiodata a sfidare lo sguardo di chi passa, là dove una volta il diritto di spada autorizzava a decidere della vita e della morte, l’elsa inchiodata diventa feticcio e reliquia laica in un luogo sacro; un'icona di una giustizia che si prende con le mani nude, senza tribunali; l’eco di un tempo in cui la fede e la politica si stringevano come serpenti intorno allo stesso albero. E forse è proprio per questo che resta lì, come un ammonimento silenzioso e ambiguo, sospeso tra verità e leggenda: perché a Palermo, più che altrove, gli oggetti non si limitano a esserci. Resistono. Raccontano. Ricordano.

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