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I Beati Paoli: storia, mito e leggenda di una setta

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 5 giorni fa
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 2 giorni fa

Palermo, città di infiniti contrasti, dove la luce dorata del barocco convive con le fitte ombre della miseria, conserva nel proprio immaginario collettivo l’enigma di un sodalizio segreto di vendicatori incappucciati: i Beati Paoli.


Una giustizia nelle viscere della città

Questi enigmatici giustizieri, attivi tra il XVII e il XVIII secolo — epoca in cui la Sicilia languiva sotto il giogo di un potere vicereale distante, corrotto e impermeabile alle istanze popolari — sembrano emergere simbolicamente dalle profondità della città come incarnazione di una giustizia alternativa, esercitata in difesa delle classi subalterne, vessate da umiliazioni, soprusi e violenze.


Ma quale verità si cela realmente dietro l’ombra di questi giustizieri incappucciati?


Collage ispirato al mito dei Beati Paoli: in alto, sei figure incappucciate in abiti neri si stagliano nell’oscurità di una grotta illuminata da luce calda e fioca; in basso, da sinistra, un tunnel ipogeo vuoto, un uomo bendato che giura davanti a un crocifisso circondato da uomini incappucciati, un uomo settecentesco che guida una congrega in un vicolo notturno, e infine un giustiziere incappucciato nell’atto di colpire un uomo inginocchiato.

Il confine poroso tra storia e leggenda

Le origini della setta rimangono tuttora un nodo interpretativo irrisolto, sospeso tra il rigore documentale e l’elaborazione mitopoietica della tradizione popolare.


I racconti di matrice orale — raccolti da Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino — e, in seguito, la letteratura d’appendice dell’Ottocento hanno trasmesso ai posteri la narrazione di una setta intesa come un vero e proprio sistema di giustizia segreta, esercitata attraverso processi occulti e sentenze inappellabili, con il fine di ristabilire un ordine morale alternativo in un contesto in cui l’ordinamento istituzionale si rivelava non solo inefficace, ma spesso complice degli stessi soprusi che avrebbe dovuto reprimere.


La prima attestazione scritta riconducibile alla presunta confraternita dei Beati Paoli si trova negli Opuscoli Palermitani di Francesco Maria Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca, eminente intellettuale del XVIII secolo e acuto interprete delle dinamiche morali e sociali della Palermo vicereale. Nella sua raccolta di osservazioni storiche, il marchese articola una delle prime ipotesi genealogiche sul fenomeno, ipotizzando un legame tra i Beati Paoli e la confraternita dei Vendicosi, un gruppo di ribelli attivi in Sicilia sin dal XII secolo e capeggiati dal nobile Adinolfo di Pontecorvo.


Tuttavia, è proprio attraverso lo sguardo del Villabianca che si delinea una delle prime rappresentazioni organiche della setta: una società clandestina operante nelle zone più oscure e inaccessibili della città, dedita a un esercizio parallelo della giustizia, alternativo e sovversivo rispetto ai meccanismi corrotti dell’autorità istituzionale.


All’interno del suo resoconto, Villabianca menziona inoltre tre individui associati alla congrega: il primo, Giuseppe Amatore, detto ’u Russu, artigiano nella produzione di armi da fuoco, giustiziato a Palermo il 17 dicembre 1704, all’età di ventisette anni; il secondo, Girolamo Ammirata, contabile, reo confesso di un omicidio con arma da fuoco, giustiziato nel 1723 al Piano del Carmine; il terzo, Vito Vituzzu, noto cocchiere palermitanoche Villabianca afferma di aver incontrato personalmente durante l’infanziaevitata la condanna a morte e lasciata la clandestinità, si ritirò a vita religiosa divenendo sacrestano presso la chiesa di San Matteo al Cassaro.


Pur definiti “scellerati” dallo stesso autoree successivamente dal giornalista Vincenzo Linares — i Beati Paoli appaiono come figure ibride, nelle quali la brutalità dei metodi si giustifica in nome di un alto ideale di equità.


Collage visivo dedicato ai Beati Paoli: in alto a sinistra, un incappucciato in abito scuro punta verso un sigillo dorato con croce e pugnali; in basso a sinistra, un uomo in abiti settecenteschi guida un gruppo di figure incappucciate in un vicolo; al centro, la copertina illustrata del romanzo I Beati Paoli con una scena di carrozze e cavalieri; a destra, ritratto fotografico in bianco e nero di Luigi Natoli, autore del celebre romanzo.

Il romanzo che fece il mito

La consacrazione definitiva del mito dei Beati Paoli si compie all'inizio del Novecento, quando la leggenda si fa romanzo e la cronaca si trasfigura in epopea. È attraverso la penna di Luigi Natoli, noto anche con lo pseudonimo di William Galt, che la setta di oscuri giustizieri palermitani entra a pieno titolo nell’immaginario collettivo siciliano.


Il suo romanzo-fiume, I Beati Paoli, pubblicato in 239 puntate tra il 1909 e il 1910 sulle colonne del Giornale di Sicilia, fonde con straordinaria efficacia realtà storica, memorie popolari e invenzione narrativa. La trama — avvincente, tragica e ambientata tra il 1698 e il 1719, arco temporale storicamente verosimile e in linea con le indicazioni fornite dal marchese di Villabianca — narra di inganni nobiliari, vendette familiari, amori segreti, e della lotta oscura dei Beati Paoli contro l’ingiustizia dei potenti.


La risonanza del romanzo ebbe nuova linfa con la riedizione Flaccovio del 1971, che accompagnava il testo con due contributi critici d’eccezione: uno di Umberto Eco che riconosce la forza del romanzo popolare; l'altro di Rosario La Duca che ne esalta la valenza storica e antropologica.


Il successo fu tale da trasformare i Beati Paoli in una sorta di archetipo letterario: vendicatori nascosti, incappucciati paladini della giustizia morale contro l’ingiustizia istituzionale.


Simboli, nomi e luoghi

La leggenda dei Beati Paoli si alimenta di simboli potenti e di immagini scolpite nella memoria collettiva, come il sigillo descritto da Luigi Natoli: una piccola croce solcata diagonalmente da due rozze spade, emblema di una giustizia arcana e inflessibile, che coniuga sacralità e violenza, redenzione e condanna.


Ma è l’intera narrazione a pulsare di suggestioni, a cominciare dal nome stesso della setta che si offre come un enigma semantico.


Una delle letture più diffuse riconduce la denominazione alla figura di San Francesco di Paola, fondatore dell’Ordine dei Minimi e venerato patrono del Regno di Napoli e Sicilia.

Una seconda interpretazione, di natura simbolico-antropologica, fa invece risalire il nome alla figura dell’apostolo Paolo, tradizionalmente associato alla conversione e alla potenza mistica. In Sicilia, infatti, la tradizione popolare attribuiva un’aura di eccezionalità mistica a coloro che venivano alla luce nella notte del 29 giugno, data in cui la liturgia cristiana celebra la solennità dei santi Pietro e Paolo. A questi nati venivano associate capacità spirituali fuori dal comune, talora interpretate come forme di preveggenza o di vocazione profetica.


Dalle pagine degli Opuscoli del Villabianca al romanzo di Luigi Natoli, la leggenda dei Beati Paoli si radica profondamente nella topografia concreta della città di Palermo, che non si limita a fungere da sfondo, ma diviene essa stessa protagonista simbolica. Le strade, le chiese, gli ipogei e i sotterranei si trasformano in scenografie vive, teatrali, in cui si consuma una giustizia parallela, oscura e rituale, sospesa tra storia e mito.


È soprattutto il quartiere del Capo, con il suo intrico di vicoli, cunicoli e architetture sacre, a rappresentare l’epicentro della geografia leggendaria dei Beati Paoli. Luoghi come la grotta della Cuncuma, le catacombe di Porta d’Ossuna e la cripta di San Matteo assumono il ruolo di veri e propri spazi liminari dove la realtà tangibile si intreccia con il simbolismo rituale.


In particolare, la Cuncuma — situata al di sotto del Palazzo Baldi-Blandano, nei pressi della chiesa di Santa Maria di Gesù (nota come Santa Maruzza) — acquisisce un’aura quasi sacrale. Descritta dal Villabianca e considerata la “sala del tribunale” della setta — oggi segnalata da una targa commemorativa che ne custodisce il ricordo — è il luogo in cui, allo scoccare della mezzanotte, si svolgevano le riunioni, si celebravano i riti d’affiliazione e si avviavano i processi.


Gli imputati — spesso colpevoli, secondo la morale della setta, di gravi soprusi ai danni degli innocenti — venivano prelevati nel cuore della notte e condotti attraverso corridoi nascosti fino al cuore dell'ipogeo. Qui, nel chiaroscuro di fiaccole tremolanti, avveniva il giudizio presieduto dal Capo della setta. Il verdetto, quasi sempre letale, veniva pronunciato e immediatamente eseguito, in un silenzio ieratico, privo di appello o clemenza.


Collage composto da cinque immagini ispirate al mito dei Beati Paoli: in alto a sinistra un giustiziere incappucciato solleva un pugnale sopra un uomo inginocchiato; al centro in alto, un uomo elegante in mantello e tricorno guida una fila di figure incappucciate in abiti neri lungo un vicolo notturno; a destra, un tunnel ipogeo illuminato da luce calda; in basso a sinistra, quattro incappucciati, uno dei quali punta un'arma antica; in basso a destra, una scena rituale in una grotta con più confratelli raccolti in cerchio.

Il mito che plasma la città

La forza evocativa della narrazione costruita da Natoli con il suo celebre romanzo non si è limitata all’ambito letterario, ma ha profondamente influenzato il modo in cui la città di Palermo percepisce e racconta se stessa. La leggenda della setta si è radicata nel tessuto urbano e linguistico, al punto da travalicare la dimensione della finzione per divenire elemento strutturale dell’identità cittadina.


I Beati Paoli entrano, così, stabilmente nella toponomastica e nel lessico popolare. Ne sono un esempio via Beati Paoli, vicolo Matteo Lo Vecchio, creando una geografia immaginaria sovrapposta alla realtà topografica, e facendo di Palermo un palinsesto vivente di memoria e leggenda. Ai luoghi, inoltre, si affiancano espressioni idiomatiche come “averne quanto i Beati Paoli” — in riferimento a violente percosse — o “pari un Biatu Paulu”, detto di chi, dietro una maschera di apparente bontà, cela un’indole pericolosa. Questi modi di dire, sedimentati nel parlato quotidiano, attestano la potenza simbolica della narrazione, che continua a riecheggiare nei gesti e nelle parole della comunità.


L’influenza della leggenda si estende anche al cinema e alla televisione, con film come I cavalieri dalle maschere nere di Pino Mercanti — autore della prima vera trasposizione cinematografica della setta — e miniserie come L’amaro caso della baronessa di Carini.


Una giustizia inquieta, ancora viva

La leggenda dei Beati Paoli si configura così come una forma di mitopoiesi urbana, capace di produrre un’archeologia del simbolo che sopravvive ben oltre la verità storica.


Se oggi non è più possibile stabilire con certezza se i Beati Paoli siano realmente esistiti o se siano il prodotto di una costruzione letteraria innervata nel desiderio di riscatto sociale, ciò che appare indiscutibile è il valore paradigmatico che essi hanno assunto nel tempo: metafora vivente di una Palermo segreta, morale e oscura, che si muove tra sacro e profano, vendetta e giustizia, norma e trasgressione.


Verità o leggenda? Giustizieri o sicari? Se vuoi scoprirne la storia, i segreti nascosti tra i vicoli di Palermo, esplorare i luoghi simbolo della setta e dipanare il mistero, ti aspettiamo alla nostra passeggiata: I Beati Paoli e il mistero della setta.



  • L'articolo è a cura della redazione di TACUS Arte Integrazione Cultura.

  • Le immagini dei collage sono state generate mediante un programma di AI




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