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Frammenti di una sopravvivenza. Vita di Maria “Mara” Montuoro

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 16 ott
  • Tempo di lettura: 5 min

Esistono storie nitide, altre frammentarie, altre ancora nitide e frammentarie insieme; quella di Maria “Mara” Montuoro appartiene a questa terza specie: nitida nelle sue traiettorie resistenziali e di deportazione, frammentaria nei dettagli di vita.


Nata a Palermo il 16 ottobre 1909, si trasferisce in Lombardia. Nell’area pavese la rete familiare Montuoro–Cuffaro si intreccia con l’ambiente clandestino dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP), piccoli nuclei urbani, compartimentati e addestrati all’azione rapida, destinati a sabotaggi infrastrutturali, colpi mirati contro presìdi e collaboratori e a un’intensa logistica clandestina.


La fisionomia dei GAP — squadre ridotte, disciplina delle coperture, uso di staffette, basi d’appoggio domestiche e tipografie — era concepita per massimizzare l’efficacia e minimizzare l’esposizione: ciascun militante conosceva soltanto quanto indispensabile al proprio compito, secondo una rigida compartimentazione delle informazioni. In questo quadro, la rete familiare tra Milano e il Pavese, con abitazioni–snodo e funzioni di sostegno materiale, si colloca coerentemente con la morfologia dell’antifascismo urbano.


Nel contesto milanese e pavese fra il 1943 e il 1945, l’inserimento di Montuoro nella trama partigiana è attestato in connessione con un indirizzo cittadino a Milano (via Lazzaroni 12) e con una tipografia clandestina allestita nella villa di Belgioioso. La scelta di cellule ristrette e compartimentate rispondeva all’esigenza di ridurre i rischi di pedinamenti e infiltrazioni: si privilegiavano contatti selettivi, trasferimenti rapidi di materiali e direttive, e un uso accorto dei luoghi “porosi” della città — cortili, officine, appartamenti — come nodi intermittenti della rete. La documentazione resistente che ricostruisce questo milieu assegna alla famiglia e alla casa un ruolo logistico di snodo, conforme alla fisiologia delle cellule gappiste.


La cesura cade il 26 febbraio 1944, quando Mara viene arrestata a Belgioioso. Il trasferimento al carcere di San Vittore la colloca nel principale crocevia della detenzione politica nella Milano occupata. Dal settembre 1943 alcuni reparti dell’istituto furono posti sotto controllo SS e destinati a prigionieri politici ed ebrei in via di trasferimento.

San Vittore si innestava nella “logistica della repressione” cittadina che conduceva al cosiddetto Binario 21 della Stazione Centrale, punto di inoltro dei convogli verso campi di transito e Lager del Reich. La memorialistica e le sintesi istituzionali milanesi documentano una sequenza di convogli tra dicembre 1943 e gennaio 1945, con destinazioni differenziate e frequenti passaggi intermedi (Fossoli, Verona, Bolzano). In tale cornice, l’itinerario carcerario di Montuoro prosegue secondo una traiettoria tipica dell’epoca.


Segue infatti l’instradamento al Campo di Fossoli (Carpi), trasformato nel marzo 1944 in Polizei und Durchgangslager, “campo di polizia e di transito” gestito dalle SS.

Fossoli assolse, per l’Italia settentrionale, una funzione analoga a quella di Drancy, Mechelen/Malines o Westerbork: “anticamera” dei Lager, di concentramento e smistamento di oppositori politici ed ebrei provenienti da carceri e campi locali, con organizzazione a scaglioni dei convogli di deportazione. Tale ruolo strutturale — nodo di raccolta, censimento e partenza — spiega la successiva collocazione di Montuoro su un trasporto estivo del 1944.


Secondo i documenti, Mara è inserita nel convoglio noto come “Trasporto n. 70”, in partenza da Verona il 2 agosto 1944 e in arrivo a Ravensbrück tra il 5 e il 6 agosto. La composizione nota del trasporto individua almeno alcune decine di deportate, con identificazioni nominative parziali e un range di matricole femminili compreso, per quel convoglio, tra numerazioni contigue che includono la 49566, assegnata a Montuoro all’ingresso in campo.


Ravensbrück fu il principale campo di concentramento femminile del Terzo Reich: aperto nel 1939, sostituì Lichtenburg e accolse prigioniere politiche, ebree, rom e sinte, testimoni di Geova e donne classificate dal sistema nazista come “asociali”, con un incremento numerico fino a oltre cinquantamila presenze all’inizio del 1945. La struttura combinava detenzione punitiva e sfruttamento lavorativo.


A partire dal 1942, nella prossimità del Lager, Siemens & Halske allestì un complesso di baracche–officina, articolato in “Hallen”, destinato alla produzione bellica con impiego di manodopera coatta femminile sottoposta a turni prolungati, prove di idoneità e cottimi, su lavorazioni elettriche ed elettromeccaniche. Le fonti collocano Maria Montuoro nel lavoro coatto Siemens, in particolare nella Halle 8.


Le condizioni materiali e sanitarie dei campi di concentramento — e di Ravensbrück in specie — sono descritte dalla letteratura storica e dalle istituzioni memoriali come segnate da sovraffollamento, malnutrizione, violenza disciplinare e, in alcuni settori, sperimentazione medica su gruppi di prigioniere. Tra l’inverno e la primavera del 1945, per effetto dell’afflusso di deportate evacuate da altri Lager e del collasso logistico del sistema, la mortalità aumentò drasticamente. In tale contesto si comprende la durezza del lavoro coatto e la precarietà della sopravvivenza quotidiana per le deportate impiegate nel complesso Siemens.


La fase terminale della guerra investe anche Ravensbrück.

Il 26 aprile 1945 le autorità SS dispongono l’evacuazione del campo mediante marce forzate verso il Meclemburgo; tra il 29 e il 30 aprile l’Armata Rossa raggiunge l’area del Lager.

Le fonti relative a Montuoro attestano che, nel contesto di tali movimenti, ella riuscì a sottrarsi alla colonna e a salvarsi, mentre il fratello Alfonso morì in deportazione.


Rientrata in Italia, il filo della vicenda si riallaccia nella forma della testimonianza pubblica: racconti, poesie e ricordi che concorrono — nelle sintesi oggi disponibili — a definire il perimetro della sua esperienza dall’arresto alla deportazione e al lavoro coatto. In questo quadro è indicato lo scritto “Turno B” come riferimento memoriale per la resa diretta di condizioni, routine e percezioni della vita concentrazionaria e del lavoro d’officina, benché qui il testo non venga esaminato nel dettaglio. La dimensione testimoniale, collocata nel dopoguerra, integra il dato documentario e ne sostiene la ricezione civile.


Sul piano anagrafico finale sussiste una divergenza tra repertori: una versione attesta “Palermo 1909 – Palermo 2000”, un’altra — presente in atti e comunicazioni istituzionali milanesi — indica “Palermo 16/10/1909 – Milano 04/03/2001”.

La memoria pubblica contemporanea, tuttavia, ha consolidato il profilo di Maria Montuoro attraverso la toponomastica civica: il 26 marzo 2025 il Comune di Milano ha intitolato a suo nome il giardino tra via dei Transiti e viale Monza, accompagnando l’atto con un sintetico profilo biografico. Tale formalizzazione, pur non risolvendo le lacune anagrafiche, ribadisce gli snodi essenziali della sua traiettoria: nascita a Palermo nel 1909, militanza nella Resistenza lombarda, arresto e detenzione, transito da Fossoli, deportazione a Ravensbrück, lavoro coatto per Siemens, sopravvivenza all’evacuazione del 1945.


La figura di Maria “Mara” Montuoro si configura come quella di una partigiana siciliana attiva nella rete clandestina lombarda, la cui vicenda attraversa i passaggi chiave della repressione nazifascista: l’arresto, il nodo carcerario milanese e il Binario 21, il transito dal campo di Fossoli, la meccanica dei convogli con il Trasporto n. 70, l’assegnazione di matricola e il lavoro coatto in un complesso industriale esterno al campo, fino alla sopravvivenza nella fase di disgregazione del sistema concentrazionario.


La sua biografia, oggi, sta tra due necessità: dire con esattezza ciò che sappiamo e lasciare vuoto ciò che non possiamo colmare. In quella fessura — tra certezza e sospensione — vive il suo esempio: la tenacia civile, il coraggio di operare in condizioni estreme, la dignità di continuare a nominare il mondo quando il mondo pretende il silenzio.



Crediti

Testo: TACUS Arte Integrazione Cultura - Associazione di promozione sociale

Immagini: elaborate con intelligenza artificiale OpenAI


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