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Monsù: storia (ironica) del despota delle cucine siciliane

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 18 dic 2023
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 16 ore fa

Nella Sicilia dai profumi d’Oriente, crocevia di popoli e civiltà, nacque un giorno una figura tanto affascinante quanto emblematica di un tempo che fu: il monsù. Sicuro di sé fino all’insolenza, non era raro trovarlo tra le mura sontuose dei grandi palazzi nobiliari, dove regnava come un despota in punta di mestolo, il vero monsieur delle cucine.


Un despota del gusto in bianco

Ma si fa presto a dire cuoco.

Il monsù, in realtà, era ben altro: un piccolo tiranno in giacca bianca, formatosi — o, più spesso, sedicente formato — alla scuola della haute cuisine, o di presunta provenienza francofona, sovrano incontrastato di quei regni di bronzo e porcellana dove la nobiltà siciliana celebrava i propri riti di potere. Non solo cucinava, ma reggeva il destino delle famiglie con la stessa precisione chirurgica con cui bardava un falsomagro o ornava una cassata. E mentre principi e duchesse si davano arie tra un valzer e un pettegolezzo, lui, nell’ombra delle cucine, orchestrava una sinfonia di sapori capace di decidere chi sarebbe sopravvissuto — socialmente e gastronomicamente — al pranzo di gala.


Figura a metà tra alchimista e giocoliere, il monsù godeva di un’autorità capace di convincere la nobiltà che un’anatra alla pressa o un timballo di anelletti fossero opere di gastronomia poetica. Nessun duca o baronessa avrebbe mai osato contraddirlo: gli bastava un pizzico di sale in più o una salsa un po’ trop chaude per umiliare un casato davanti a un’intera corte. Perché in quelle cucine si decideva il destino delle casate, e il monsù teneva sempre il coltello dalla parte del manico.


Non di rado, i monsù finivano per essere accolti come membri “onorari” della famiglia: un po’ cuochi, un po’ parenti serpenti. Alcuni si prendevano pure la briga di firmare i menù dei matrimoni come Botticelli della besciamella, e non mancavano casi in cui riuscivano a spillare pensioni vitalizie.


Collage iperrealistico ispirato alla tradizione culinaria aristocratica siciliana: a sinistra, un timballo scenografico a più piani, simile a una torta nuziale, con pasta, ragù e piselli visibili all’interno; in alto al centro, un cuoco robusto e imponente in uniforme bianca e cappello da chef, con un mestolo in mano e sguardo severo; in alto a destra, un lungo tavolo apparecchiato con candelabri, fiori e nobili seduti in abiti eleganti, immersi in un’atmosfera solenne; in basso a sinistra, un’antica cucina nobiliare con tavolo di legno, pentole di rame e archi in pietra; in basso a destra, un buffet sontuoso con nobili in smoking e divise militari che si servono tra piatti decorati e candelabri dorati.

Il pasticcio linguistico che senti sotto i denti

Quando si pensa a un cuoco, lo si immagina chino sui taglieri, intento a sminuzzare e mescolare in religioso silenzio, come un frate in preghiera davanti alla casseruola.

Peccato che il monsù non appartenesse affatto a quell’ordine contemplativo: la sua cucina era un confessionale rumoroso, uno stadio a porte chiuse, un’arena dove il coltello diventava scettro e il mestolo una clava. Altro che silenzio: il monsù impartiva ordini a raffiche, ringhiando come un bulldog francese in esilio in una lingua già di per sé un pasticcio, mezzo monsieur e mezzo “comparuzzo”, un pettinato francese spettinato dal dialetto siciliano, grasso e carnale come una stigghiola in festa.


E così anche i piatti subivano il destino delle casate decadute: il solenne gâteau veniva ridotto a “gattò”, la raffinata croquette diventava “crocchè”, e la preziosa béchamel, poveretta, scivolava giù fino a chiamarsi “besciamella”, con la grazia un po’ pacchiana di una matrona di quartiere: un lessico commestibile composto da consonanti pastose, vocali grasse e frasi che odoravano di forno a legna.


Architetture gustose tra vapore e vanità

La sua arte non era mera tecnica, ma diplomazia sensoriale mista a una liturgia estetica officiata tra vapori e burro fuso; i suoi piatti — architetture monumentali degne di una cattedrale — manoscritti di carne e spezie; ogni ricetta, invece, un’alchimia segreta, annotata su quaderni più riservati di un testamento nobiliare, custodi della genealogia del casato e, ça va sans dire, della sua smisurata vanità.


Eppure, la sua nobiltà di forchettone conosceva anche bizzarre idiosincrasie. Alcuni monsù rifiutavano sdegnati di far entrare il pomodoro nelle loro cucine, definendolo “troppo plebeo, acido e chiassoso” per i delicati stomaci nobiliari. Quel frutto rosso e sfacciato dovette attendere la fine dell’Ottocento e la sua ascesa borghese per varcare i portoni dei palazzi e infilarsi nei menù di corte, diventando, con invidiabile ironia, il re della tavola.


Dalla corte al popolo: la parabola del monsù

Ma il tempo, che impasta e cuoce a puntino, non risparmiò neppure il monsù. Con la fine del potere aristocratico la sua figura cominciò a sgonfiarsi come un soufflé mal riuscito. E mentre le cucine si fecero più piccole, lui dovette cedere il passo insieme alle sue ricette, infiltratesi tra il popolo, come nobili decaduti costretti a fare la fila dal fornaio.


Oggi il monsù sopravvive come un fantasma impomatato che si aggira tra le righe dei quaderni delle nonne — trascritti con santa pazienza —, tra i pranzi della domenica ripetuti come una messa cantata, e nelle cucine degli chef contemporanei, che lo evocano con rispetto circospetto e quella sfacciata audacia da parvenu che lui, in vita, avrebbe liquidato con un’alzata di mestolo.



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