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Matteo Lo Vecchio: il volto oscuro della leggenda palermitana

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 22 mar 2024
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 6 giorni fa

Nel cuore dell’Albergheria, quartiere popolare di Palermo, la memoria collettiva ha tramandato il nome di Matteo Lo Vecchio, figura ambigua e infame, ricordata dalla tradizione come lo sbirro per eccellenza. In lui si condensano i tratti che il popolo attribuiva al braccio armato del potere: brutalità, servilismo, avidità e doppiezza.


Secondo i racconti popolari, Lo Vecchio non esitava a vendersi al miglior offerente: un doppiogiochista, capace di passare dal servizio dei sovrani a quello della Curia romana.

Proprio nel periodo dello scisma siciliano (1711-1719), quando le diocesi dell’isola erano divise tra obbedienza al papa o al re, la leggenda lo raffigura come “sbirro del Papa”, pronto a consegnare ai rappresentanti pontifici quei religiosi che in Sicilia si ritenevano sottratti alla giurisdizione romana per privilegio di legazia. Questo presunto tradimento delle antiche prerogative regali ne alimentò la fama sinistra e lo rese emblema di infamia.


Ma fu Luigi Natoli, ne I Beati Paoli (1909-1910), che ne cristallizzò il mito, trasformandolo in un personaggio letterario carico di simbolismo: incarnazione della giustizia corrotta, del potere venduto e del lato oscuro dello Stato, acquisendo la statura di icona negativa, sospesa tra realtà storica e leggenda urbana.


Lo Vecchio nei Beati Paoli: la funzione narrativa

Natoli recupera la leggenda di Lo Vecchio e la inserisce nel tessuto narrativo come antagonista paradigmatico. La scelta non è casuale. In un romanzo che si nutre del contrasto tra giustizia occulta e potere corrotto, Lo Vecchio diventa la personificazione della polizia servile, brutale e venduta. La sua figura, già sedimentata nella memoria popolare come emblema di infamia, offre a Natoli il materiale ideale per contrapporre due modelli: da un lato, la giustizia “parallela” e segreta dei Beati Paoli, presentata come espressione di un sentimento collettivo di riscatto; dall’altro, la giustizia ufficiale, degradata a strumento di sopruso nelle mani di uomini come lui.


In questo modo, Lo Vecchio svolge una funzione essenziale: non solo come personaggio negativo che alimenta il pathos del racconto, ma come simbolo di un potere arbitrario contro cui si giustifica la ribellione popolare. L’infamia storica e leggendaria dello sbirro palermitano diventa così materia narrativa, elevata a exemplum di ciò che la città odiava e temeva, e al tempo stesso sfondo necessario per esaltare la dimensione eroica e misteriosa della setta dei giustizieri in incognito.


La morte e il funerale dell’infame

Il destino di Lo Vecchio, sempre secondo la tradizione, si compì il 21 giugno 1719, quando fu ucciso a colpi di archibugio nei pressi della Cattedrale. La città che lo aveva temuto esplose in scherno e dileggio. Il suo funerale divenne un corteo grottesco: i bastasi della confraternita della Sciabica, incaricati di portarne la bara, furono assaliti dalla folla; i monaci di Sant’Antonino rifiutarono di accogliere la salma; persino il custode del cimitero dei poveri lo respinse. Secondo il racconto popolare, il corpo fu infine abbandonato e gettato in un pozzo: una damnatio memoriae estrema, che però non impedì al suo nome di sopravvivere nella toponomastica urbana, con il Vicolo Matteo Lo Vecchio.


Collage evocativo sui Beati Paoli e la leggenda di Matteo Lo Vecchio a Palermo: ritratto realistico dello sbirro infame in abiti del Settecento, vedute storiche della città, teschi e ossa come simboli di morte, confraternita incappucciata in sotterranei e figure in nero davanti alla Cattedrale

Il contesto: legazia apostolica e scisma siciliano

Per comprendere perché la memoria di Lo Vecchio si sia intrecciata con i grandi conflitti della sua epoca, occorre ricordare lo scenario politico e religioso della Sicilia del primo Settecento.


La legazia apostolica, concessa da papa Urbano II a Ruggero I nel 1097, attribuiva al sovrano siciliano ampie prerogative sulle questioni ecclesiastiche. Nei secoli, questo privilegio alimentò una costante tensione con la Santa Sede, che lo considerava un’ingerenza nei propri diritti. Lo scontro esplose nel 1711, quando un episodio a Lipari — la requisizione di pochi ceci a un mercante legato al vescovo Nicolò Tedeschi — innescò una catena di scomuniche, arresti e interdizioni. La società siciliana si spaccò tra curialisti (sostenitori del papa) e regalisti (difensori del privilegio regale), fino a quando, nel 1719, un accordo tra Roma e la corona pose fine al conflitto.


È in questo contesto che la leggenda colloca Matteo Lo Vecchio: non tanto come protagonista della politica alta, quanto come strumento dei potenti, capace di approfittare della frattura tra Stato e Chiesa per accumulare potere personale.


Memoria e interpretazione

Il ricordo di Lo Vecchio rimane dunque bifronte: da un lato, il probabile personaggio minore di cronaca nera, dall’altro il simbolo che letteratura e memoria popolare hanno consegnato alla città. La sua vicenda ci parla meno di lui come individuo, e più della percezione collettiva di un potere poliziesco corrotto, venduto, spietato.


Matteo Lo Vecchio non è soltanto un personaggio della leggenda palermitana, ma una costruzione simbolica: il doppiogiochista, lo sbirro del Papa, l’uomo venduto a chiunque potesse garantirgli vantaggi. Il suo nome, sopravvissuto nella toponomastica e nelle pagine della letteratura, continua a funzionare come monito contro la violenza cieca e l’arbitrio, ricordando che anche le storie degli infami appartengono al patrimonio della città.



Crediti

Testo a cura di TACUS Arte Integrazione Cultura - Associazione di promozione sociale.

Immagini elaborate con intelligenza artificiale OpenAI.

Ricerca storica e culturale condotta su fonti bibliografiche e documentarie.

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