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La soglia dell’inclusione

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 29 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

Negli ultimi decenni, il concetto di inclusione si è imposto come parola d’ordine nelle politiche educative e nei discorsi istituzionali. Ma cosa implica davvero “includere”? Quali processi storici, simbolici e affettivi attraversano questa pratica?


L’inclusione non è una politica: è una soglia

Le retoriche contemporanee sull’inclusione si fondano spesso su una visione lineare e normativa del concetto: includere significa “aprire le porte”, “integrare le differenze” e “rimuovere le barriere”. Ma come mostrano in modo complementare i volumi Nessuno escluso (2013) e Diverso da chi (2022), tale rappresentazione rischia di occultare la struttura profondamente ambivalente dell’inclusione stessa.


Essa non è mai un’azione neutra: è un atto performativo che costituisce soggetti e confini, che nomina chi è dentro e chi resta fuori. Includere, dunque, non è semplicemente “far entrare”, ma ridefinire l’intero spazio sociale e simbolico.


L’inclusione è una soglia, non un luogo: è una pratica liminale, sempre in bilico tra ospitalità e disciplinamento, tra accoglienza e normalizzazione, dove il soggetto incluso, per essere tale, deve rispondere a determinati codici: deve rendersi comprensibile, legittimo, accettabile.


Come si osserva in Diverso da chi, questa operazione implica una “sgrammaticatura della differenza”: il diverso, per essere accolto, deve diventare leggibile secondo le categorie del già noto. Un accoglimento che, in questo senso, trasforma ogni inclusione in annessione, svuotando la differenza del suo potenziale critico.


La grammatica inclusiva e i suoi silenzi

Entrambi i testi convergono nel denunciare il carattere retorico, epico e anestetizzante che il lessico dell’inclusione ha assunto in ambito istituzionale. Espressioni come “nessuno escluso” o “diverso da chi?” suonano potenti, ma rischiano di ridursi a vuoti dispositivi auto-assolutori se non accompagnati da un reale lavoro di trasformazione sociale.


La semiotica dell’inclusione è una semiotica fondamentalmente ambigua. Essa, se da un lato può essere usata per nominare il conflitto, dall'altro rischia di occultarlo, nascondendo le asimmetrie, facendo apparire equo ciò che è gerarchico, e consensuale ciò che è imposto.

In questo senso, l’inclusione può funzionare come dispositivo di pacificazione. Essa promette un “noi allargato”, ma spesso rifiuta di interrogarsi sul costo di tale allargamento: chi deve cedere? Chi deve mutarsi per entrare? Chi ha il potere di decidere cosa sia legittimo includere? Da qui nasce l’esigenza di una filosofia critica dell’inclusione, capace di smascherarne i dispositivi normalizzanti.


La pedagogia della soglia: formazione come co-emergenza

Una delle strade teoriche più fertili per ripensare l’inclusione è quella pedagogica, a condizione però di disinnescare il suo potenziale addomesticante, perché è solo nella funzione di soggettivazione – e non in quella di mera qualificazione o socializzazione – che l’educazione può diventare inclusiva. In questa cornice, l’inclusione non è un evento che si conclude nell’accoglienza, ma una co-emergenza di soggetti e contesti, una relazione performativa in cui entrambi i poli si trasformano. È la scuola a dover mutare, non l’alunno disabile o straniero. È la città a dover aprire nuovi spazi, non il corpo marginale a dover diventare conforme.


La formazione inclusiva è quindi una pratica dell’inquietudine che genera fratture, apre interrogativi e problematizza l’evidenza. In tal senso, essa ha un valore radicalmente etico, perché rompe la logica della tolleranza per aprire alla giustizia. Non si tratta più di “includere il diverso”, ma di fare spazio alla differenza, anche quando essa è indecifrabile, eccessiva, resistente alla codifica.


Promessa e impossibilità: l’inclusione come etica dell’incompiuto

Forse la formula più onesta per avvicinarsi all’inclusione è quella della promessa, non nel senso di un obiettivo da raggiungere, ma di un’etica della tensione. Essa è il nome di un compito, non di una conquista.


Ogni comunità che si dice inclusiva deve vivere in uno stato di crisi costante: la crisi del proprio linguaggio, delle proprie regole, delle proprie soglie di accesso. L’inclusione, così intesa, non è mai pienamente possibile – ma è proprio in questa impossibilità che risiede la sua forza. È una politica dell’incompiuto, che si rigenera ogni volta che una voce al margine reclama parola.


Accogliere questa voce non significa darle un microfono, ma trasformare l’acustica della scena: ridisegnare il modo in cui ascoltiamo, comprendiamo, e lasciamo risuonare. L’inclusione autentica è allora rivoluzionaria, nel senso più radicale del termine: capovolge i termini, riscrive la grammatica del convivere, destruttura l’evidenza del “noi”.


Un’etica del dissenso, non del consenso

Ripensare l’inclusione oggi significa rifiutare le semplificazioni. Essa non è sinonimo di accesso, né di uguaglianza, né di riconoscimento automatico. È piuttosto una pratica politica esigente, fatta di ascolto, decentramento, esposizione; è un’etica del dissenso, non del consenso.


I testi Nessuno escluso e Diverso da chi ci aiutano a cogliere questa complessità: mostrano che l’inclusione non può essere separata dalla differenza, e che ogni progetto inclusivo autentico deve passare attraverso il rischio del turbamento, dell’ambivalenza, del fallimento, dar vita a una lotta linguistica, a una battaglia per creare spazi di parola e di senso che non si esauriscano in ciò che è già noto. Perché l’inclusione non è mai ciò che si ha; è ciò che si cerca, continuamente, sapendo che ogni volta dovrà essere cercata di nuovo.


Bibliografia

  • Frigerio, G., & Luraschi, S. (2022). Diverso da chi. L’inclusione come promessa. Milano: Franco Angeli

  • Oliverio, S., Striano, M., & Valerio, P. (a cura di) (2013). Nessuno escluso. Formazione, inclusione sociale e cittadinanza attiva. Napoli: Liguori Editore

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