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Tappina: una parola piccola, un universo smisurato

  • Immagine del redattore: Tacus Associazione
    Tacus Associazione
  • 31 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

C’è una parola minuta che racchiude un intero universo lessicale e culturale: tappina.


In Sicilia, questo termine sopravvive in una duplice genealogia: da un lato, è la ciabatta da camera; dall’altro, in senso traslato e morale, è l’evocazione della tappinara, figura femminile associata a una reputazione leggera quanto le calzature che porta.


In questa doppia valenza si riflette l’ambiguità semantica tipica della cultura popolare siciliana, capace di rendere erotico ciò che è comodo, ridicolo ciò che è sacro, potente ciò che appare umile.


Etimologie dell’umiltà: tapeinòs e il basso domestico

Il termine tappina affonda le sue radici nel greco ταπεινός (tapeinós), che significa “basso”, “modesto”, “vicino alla terra”; nel catalano tapí, indicante una particolare calzatura femminile; e nello spagnolo chapín, ossia ciabatta.


Un’etimologia che ben si accorda con l’immagine della ciabatta come calzatura domestica e quotidiana, talvolta semplice, talvolta ornata e preziosa. Ma è proprio questa modestia formale, sedimentata nel tempo, a generare connotazioni ambivalenti, in bilico tra intimità, marginalità e suggestione simbolica.


Il sapere materno e la pantofola volante

Attorno alla tappina ruota un intero universo simbolico. Basti pensare al celebre lancio della pantofola, gesto educativo che, pur non riconosciuto dalla pedagogia ufficiale, ha costituito per generazioni una forma di trasmissione disciplinare domestica. Un gesto materno infallibile, fatto di prontezza d’azione e amore severo, riscontrabile persino in un labete nuziale del IV secolo a.C., conservato al Museo Archeologico di Taranto, che raffigura Afrodite mentre colpisce il piccolo Eros con un sandalo, o nella scultura con Afrodite, Pan ed Eros, custodita al Museo Archeologico di Atene.


Dalla pantofola alla tappinara

La stessa tappina ha generato un’espressione di notevole forza semantica: tappinara.

Letteralmente, il termine potrebbe indicare un’utilizzatrice o fabbricatrice di pantofole, ma nell’uso comune si riferisce a una donna di facili costumi. Secondo alcune letture storiche del costume, questa accezione risalirebbe al periodo arabo, quando nelle stanze degli harem, concubine e sultani indossavano pantofole per non contaminare i tappeti.


Altri studiosi ne fanno risalire la genesi alla dominazione spagnola, quando i viceré siciliani imposero alle prostitute l’uso di zoccoli rigidi — tappine di legno con suola alta di sughero — per renderle riconoscibili al passo. Di qui anche l’accostamento, ancora vivo nel linguaggio popolare, tra tappinara e zoccola, oggi termine volgare ma storicamente legato alla regolamentazione e stigmatizzazione del corpo femminile.


Quando il rumore fa scandalo

Nel Medioevo e nei secoli successivi, una delle principali preoccupazioni legislative riguardava la distinzione visiva tra donne oneste e meretrici, accusate di confondere i ruoli sociali attraverso l’ostentazione di abiti e ornamenti.


Celebre, a tal proposito, l’episodio che coinvolse Margherita di Provenza, moglie di Luigi IX di Francia, la quale baciò pubblicamente una cortigiana scambiandola per dama di corte: un equivoco che spinse il sovrano a proibire ogni lusso tra le “disoneste”.


In Sicilia, a partire dal 1534, i viceré promulgarono prammatiche che vietavano alle prostitute l’uso di sete, gioielli e la compagnia di uomini. A far rispettare tali disposizioni fu creato un organo specifico: l’Ufficium bacchettae, incaricato di sorvegliare e punire, con fustigazioni pubbliche, rasature o reclusioni nei monasteri delle Repentite.


All’interno di queste politiche moralizzatrici, le calzature divennero un segnale pubblico di disonestà: alle meretrici fu proibito l’uso delle scarpe ordinarie e imposto quello delle tappine, zoccoli domestici con suole di sughero, il cui rumore acustico divenne marchio sonoro di esclusione. La pantofola, oggetto intimo e privato, fu così trasformata in strumento repressivo e stigma sociale.


Composizione visiva ispirata alla storia culturale della pantofola e del termine siciliano "tappina". A sinistra, una statua classica raffigura Afrodite con un sandalo in mano e Cupido alle sue spalle. In basso, dettagli di calzature antiche da un affresco e una ceramica greca con figure femminili. Al centro-destra, una chopine veneziana del Rinascimento e un’illustrazione storica con dame in abiti sontuosi e zeppe altissime. All’estrema destra, una donna contemporanea in abito nero, ritratta con espressione severa e una pantofola sollevata in gesto minaccioso, simbolo iconico della “pantofola volante” materna

La pianella tra fiaba, riscatto e oggetto d’identità sociale

E tuttavia, nel mondo simbolico, la pantofola custodisce anche un potere di riscatto e salvezza. In molte versioni antiche della fiaba di Cenerentola — dalla variante egizia a quella napoletana narrata da Giambattista Basile nel Cunto de li cunti (1634) — la protagonista non calza una scarpetta di cristallo, ma una pianella, ovvero una tappina preziosa. Un oggetto semplice, domestico, che diventa talismano: soglia tra umiliazione e rivalsa, strumento di giustizia e desiderio.


Ma ciò che nella fiaba assume il valore di incanto e redenzione, nella vita quotidiana ha avuto risvolti concreti e ben visibili: la tappina, infatti, non ha abitato solo l’immaginario delle fiabe, ma anche il repertorio della realtà sociale, diventando oggetto di distinzione, segno silenzioso di rango e identità personale all’interno delle mura domestiche.


Questo potere trasformativo della pantofola, capace di elevare chi la indossa da una condizione di marginalità a una dimensione di riconoscimento e appartenenza, non appartiene solo alla sfera del mito.


Anche nella realtà storica e materiale, la tappina ha incarnato una forma silenziosa ma eloquente di distinzione, diventando segno visibile dell’identità e del rango all'interno della sfera domestica.


Nel tempo, infatti, la tappina ha assunto anche un valore distintivo e di classe. A partire dal Quattrocento, in Sicilia, la qualità delle ciabatte da camera — stoffe, ricami, ornamenti — rifletteva il rango del proprietario. Alcune tappine, riccamente decorate, erano vere e proprie calzature da rappresentanza domestica. Anche nello spazio privato, si affermava così una forma silenziosa ma eloquente di potere simbolico.


Un discorso simile, sebbene portato all’estremo, vale per le cosiddette chopine, le vertiginose zeppe in voga tra XV e XVI secolo soprattutto a Venezia, che potevano raggiungere anche i cinquanta centimetri d’altezza. Indossate dalle nobildonne per slanciarsi e distinguersi visivamente dalle donne del popolo, le chopine necessitavano spesso dell’aiuto di una servente per camminare: un lusso che si faceva limite, un simbolo che diventava ostacolo. La tappina, in questo senso, ne rappresenta la sorella umile e domestica: meno appariscente, ma altrettanto densa di significati sociali e rituali.


Una parola, mille storie

Dietro l’apparente semplicità del termine tappina si cela un intreccio di significati storici, morali e simbolici. Oggetto d’uso quotidiano, arma educativa, codice di condotta, strumento di repressione e traccia di desiderio, la tappina cammina silenziosa nei secoli. E a ogni passo racconta la storia contraddittoria, resistente e straordinaria della condizione femminile.


Insomma, la tappina non è mai stata solo una ciabatta. È passata dalle mani delle dee a quelle delle nonne, dalle fiabe ai vicoli, dalle camere da letto ai marciapiedi. E anche se oggi rischia di essere sostituita da pantofole memory foam o da ciabattine da spa, resta comunque un oggetto carico di storie, segreti e colpi ben assestati.


Del resto, in Sicilia lo sanno tutti: la giustizia divina è imperscrutabile, ma quella materna... viaggia in pantofole. E ci prende anche se ci nascondiamo sotto il tavolo.

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