Quando Roma si vestiva di rose e ambiguità: il dies meretricum
- Tacus Associazione
- 23 apr
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 10 lug
Una celebrazione dell’ambiguità
Nell’universo palpitante dell’antica Roma, città dalle cento contraddizioni e dai mille volti, anche coloro che esercitavano il mestiere più antico del mondo trovavano uno spazio rituale riconosciuto. Il 23 aprile era infatti il dies meretricum, il giorno consacrato alle prostitute (meretrices, da mereo: “guadagno”), una celebrazione che rappresentava, al tempo stesso, un atto religioso, una processione pubblica e una temporanea sospensione dell’ordine morale dominante.
In questa data, le meretrici si recavano in processione al tempio di Venere Ericina, dea dell’amore fisico. Che fossero impiegate stabilmente all’interno dei lupanaria — antesignani dei moderni bordelli — oppure attive nelle osterie e locande (cauponae), o ancora che esercitassero come liberae professionistae, offrendo i propri servigi all’interno di abitazioni private o affacciandosi sulle soglie delle cellae meretricae, con le porte aperte verso la strada, nei fornici dei teatri, lungo i portici del Circo Massimo o persino tra le tombe disseminate lungo le vie consolari, le meretrici, nel giorno loro consacrato, si radunavano in processione solenne.
Adornate di fiori, percorrevano le vie che conducevano al tempio di Venere Ericina portando in dono corone di rose e rami di mirto — piante sacre alla dea — insieme a sisimbro e incenso.
Così come racconta Ovidio nei Fasti (IV, 865), chiedevano alla dea di proteggerle, di mantenerle giovani e belle, poiché il tempo e l’aspetto erano strumenti essenziali per la loro sopravvivenza. La bellezza non era un semplice ornamento, ma una valuta, un capitale simbolico e tangibile, su cui si costruiva la loro fragile posizione sociale.

La prostituzione a Roma: una legalità marginale
La prostituzione, nella Roma antica, era una professione regolata da leggi specifiche.
Le meretrici, secondo quanto tramanda Tito Livio, dovevano iscriversi in un apposito albo professionale, tenuto dagli Edili — i magistrati incaricati della regolamentazione dei mercati e delle attività pubbliche — pena l’esilio. L’iscrizione era dunque una condizione imprescindibile per esercitare legalmente la professione. Le professae, ossia le prostitute registrate, erano sottoposte a norme che includevano l’obbligo di indossare la vestis meretricia — un abito semplice e immediatamente identificabile, che sanciva la loro separazione dalle donne rispettabili — e di versare il vectigal meretricum, una tassa il cui importo corrispondeva a quello di una prestazione.
Eppure, pur essendo inquadrate giuridicamente, le meretrici restavano prive dei diritti civili riconosciuti agli altri cittadini: escluse dagli spettacoli pubblici, interdette dal testimoniare in tribunale e dall’ereditare beni. Erano, in definitiva, lavoratrici riconosciute e ufficialmente tollerate ma mai pienamente accettate, riconosciute quanto bastava, invisibili quando conveniva.
Venere Ericina: dalla Sicilia a Roma
Il 23 aprile era anche il giorno anniversario della dedica del primo tempio a Venere Ericina sul Campidoglio, avvenuta nel 215 a.C., due anni dopo che Quinto Fabio Massimo lo aveva votato nel 217, invocando l’aiuto dell’Afrodite di Erice durante la seconda guerra punica. Questo primo tempio si trovava entro il pomerium, e pertanto rientrava nella sfera del culto pubblico ufficiale. Tuttavia, il culto di Venere Ericina venne "romanizzato": la componente di prostituzione sacra, presente nel santuario originario di Erice in Sicilia, venne espunta, poiché considerata troppo estranea allo spirito e alle tradizioni della religione romana, eccessivamente “orientaleggiante” e, pertanto, pericolosa per l’ordine morale urbano.
Il secondo tempio e il ritorno del sacro erotico
Ma Roma, con la sua capacità di sovrapporre culti e significati, seppe articolare il culto in due luoghi e due dimensioni. Infatti, il 23 aprile del 181 a.C. venne dedicato un secondo tempio a Venere Ericina, votato nel 184 da Lucio Porcio Licinio durante la guerra contro i Liguri, questa volta situato fuori dalle mura, presso la Porta Collina. Qui, lontano dagli sguardi della società più rispettabile, il culto conservava elementi arcaici, compresa la prostituzione sacra, in una forma che evocava quella del tempio di Erice. Una splendida statua della dea ornava il tempio, che sorgeva all’interno di un portico: uno spazio sacro e protetto, dove Venere si rivelava nella sua forma più sensuale e inclusiva.
Fu in questo secondo tempio che le professae celebravano il loro rito. Esse prendevano il posto delle antiche sacerdotesse sacre e, attraverso i loro gesti votivi e le loro offerte profumate, chiedevano alla dea la grazia del favore popolare, l’arte di piacere e l’abilità di mantenere viva la fiamma del desiderio. Non si trattava semplicemente di un’adorazione personale, ma di un rito pubblico e partecipato, che attirava non solo sguardi curiosi, ma anche uomini in cerca di compagnia. La linea tra sacro e profano si faceva sottile, quasi impercettibile, e in questa ambiguità la Roma religiosa e la Roma quotidiana trovavano una strana, efficace armonia.
Due Veneri, due mondi: Verticordia ed Ericina
Questa duplicazione del culto — Venere Ericina all’interno del pomerium, patrona delle spose e delle vittorie pubbliche; Venere Ericina fuori dal pomerium, patrona delle prostitute — rifletteva la duplicità insita nella figura della dea stessa, e, per estensione, nella cultura romana. Una città capace di contenere gli opposti senza annullarli, di venerare contemporaneamente l’amore casto di Venus Verticordia (celebrata il 1° aprile) e l’amore carnale di Venus Erycina. La virtù e il piacere non si escludevano, ma si specchiavano l’uno nell’altro. Laddove la Roma ufficiale propugnava l’ordine e la moralità, quella liminale, dei bordi e delle soglie, sapeva ancora riconoscere il valore delle passioni, persino quando esse erano mercificate.
Come ricorda Vitruvio nel De Architectura (I,7,1), “le passioni suscitate dalla dea devono essere tenute lontane dagli adolescenti e dalle madri di famiglia”: ed è proprio per questa ragione che il tempio della Venere delle meretrici si trovava fuori città. Ma è anche per questa ragione che, nonostante la marginalità, le meretrices avevano un giorno tutto loro: un momento in cui la loro professione non era solo tollerata, ma celebrata.
L’eco di un rito dimenticato
Oggi, il dies meretricum è poco più di una nota a piè di pagina nelle cronache religiose romane, ma continua a raccontare un frammento essenziale della mentalità di Roma: una civiltà che, pur ossessionata dalla gerarchia, non ignorava ciò che stava ai margini. E, almeno per un giorno, permetteva alle escluse di diventare protagoniste, al desiderio di mostrarsi alla luce del sole, e alla dea di assumere tutte le sue maschere — la sposa e la cortigiana, la madre e l’amante, la virtù e la passione.
L'articolo è a cura della redazione di TACUS Arte Integrazione Cultura.
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