Il Trionfo della Morte di Palermo
- Tacus Associazione
- 14 giu 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Tra le sale della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis si erge, come un grido silenzioso, uno degli affreschi più inquietanti e solenni dell’arte europea, il Trionfo della Morte: un’opera che non si limita a decorare, ma incide, ammonisce e interroga.
Un affresco per l’ospedale dei poveri
Eseguito intorno al 1446 da un maestro anonimo, sensibile agli influssi franco-fiamminghi e iberici, l’affresco fu concepito per adornare la parete meridionale del cortile dell’Ospedale Grande - ex Palazzo Sclafani (1), istituito nel 1429 da Alfonso il Magnanimo (2) come uno dei principali centri assistenziali del Mediterraneo, destinato ad accogliere poveri e infermi.
Con i suoi oltre sei metri di larghezza e la raffinatezza della tecnica esecutiva, l’opera non mirava soltanto a stupire per virtuosismo, ma assolveva soprattutto a una funzione pedagogica: ammonire chi varcava quella soglia sulla caducità della vita, richiamare all’urgenza di curare l’anima oltre al corpo e offrire, attraverso le immagini, una meditazione sulla sofferenza illuminata dalla fede cristiana.
Un secolo di paure
La Sicilia del primo Quattrocento era un’isola percorsa da ferite e paure: carestie, instabilità politica, tensioni dinastiche e, soprattutto, l’eco persistente della peste del 1347–48 (3).
In questo contesto di angosce apocalittiche maturarono generi figurativi come la Danza Macabra (4) e il Trionfo della Morte, immagini collettive che intrecciavano monito religioso, denuncia sociale e riflessione universale sulla fragilità dell’uomo.
La Morte a cavallo
Al centro della scena, la Morte si erge scheletrica su un cavallo livido, l’equus pallidus dell’Apocalisse di Giovanni (Ap 6,8) (5). L’arciere scaglia frecce letali contro nobili, giuristi, prelati, dame e cavalieri, raffigurati in abiti ricchi e gioielli, mentre giacciono a terra, trafitti nei loro abiti sontuosi senza distinzione. Ai margini, i poveri e gli infermi alzano le mani supplichevoli, ma restano ignorati, come se la giustizia divina tardasse a dar loro ascolto.
Questa dicotomia è il cuore simbolico dell’opera: i potenti, travolti; gli umili, dimenticati.
Una tensione che vibra tra escatologia e denuncia sociale, tra Vangelo e coscienza civile.

Teatro gotico e crudeltà realistica
Collocato all’ingresso dell’Ospedale, il Trionfo della Morte si presentava come un tribunale visivo: ammoniva i potenti, esortava alla carità e invitava a meditare sulla sorte comune. Nello sguardo dei poveri — vivi, ignorati, esclusi persino dal colpo fatale — si coglie però un’istanza nuova, quasi laica: una denuncia implicita delle disuguaglianze, un invito a riconoscere che ricchezza e autorità non garantiscono salvezza, mentre la marginalità resta condannata all’invisibilità.
L’opera si configura così come un “mito visivo”, attraverso il quale la comunità rielabora paure, tensioni e desideri di giustizia: un linguaggio simbolico che fonde riflessione spirituale e critica sociale, trasformando l’esperienza collettiva della sofferenza in meditazione sulla fragile dignità dell’esistenza.
Fortuna critica e modernità
Strappato dalla sede originaria durante la Seconda guerra mondiale per salvarlo dai bombardamenti, dal 1954 è custodito a Palazzo Abatellis (6), nell’allestimento ideato da Carlo Scarpa, che ne valorizza la monumentalità come fosse una miniatura ingrandita.
Un dialogo inquietante con la modernità: il Trionfo della Morte e la Guernica
Pur separati da quasi cinque secoli, il Trionfo della Morte e la Guernica di Pablo Picasso (1937) sembrano parlarsi in un dialogo silenzioso e sorprendentemente coerente. Entrambe sono grida collettive contro la violenza, entrambe offrono una meditazione corale sulla fragilità dell’uomo di fronte alla catastrofe.
I linguaggi figurativi non potrebbero essere più distanti: da un lato il gotico internazionale, elegante e teatrale, dall’altro il cubismo frammentato e dissonante. Eppure il messaggio che trasmettono è lo stesso: la morte e la violenza colpiscono senza distinzione, dissolvendo identità e illusioni di ordine. Nel Trionfo, la giustizia divina abbatte i potenti e ignora i poveri; nella Guernica (9), la brutalità della guerra lacera corpi e simboli, travolgendo donne, bambini e animali in un dolore senza redenzione.
Entrambe rinunciano a un protagonista, affidando la narrazione a una coralità di figure e segni: è la comunità intera — ferita, mortificata — a farsi voce. E se ciascuna nasce da un evento concreto — la peste medievale e la guerra civile spagnola —, entrambe oltrepassano il proprio tempo, trasformandosi in ammonimenti universali contro la violenza, l’ingiustizia e l’oblio.
Un monito senza tempo
Il Trionfo della Morte resta oggi una delle più potenti allegorie della cultura figurativa siciliana. Opera che, plasmando la memoria collettiva e continuando a interrogare il presente, non appartiene più soltanto al passato, ma si fa ammonimento morale, denuncia sociale e meditazione universale. Con la sua voce muta, posta come uno specchio che riflette le inquietudini contemporanee, il fragore delle guerre e le disuguaglianze sociali, essa ci ricorda che la morte — e forse anche la giustizia — non conosce privilegi, invitandoci a riconoscere la fragile dignità che accomuna ogni essere umano.
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Note
Palazzo Sclafani (1330) fu la residenza di Matteo Sclafani, conte di Adernò. Coevo a Palazzo Chiaramonte-Steri, fu trasformato da Alfonso il Magnanimo, nel 1429, in Ospedale Grande e Nuovo, uno dei più importanti istituti assistenziali del Mediterraneo, destinato ad accogliere poveri, infermi e pellegrini.
Alfonso V d’Aragona, detto “il Magnanimo” (1396–1458), fu re di Valencia, Maiorca e Sardegna, e dal 1442 anche re di Napoli. Figura emblematica del tardo Medioevo mediterraneo, seppe coniugare ambizione politica e mecenatismo, sostenendo letterati, giuristi e artisti come Lorenzo Valla e Antonio Beccadelli detto il Panormita. Alla sua immagine di sovrano illuminato unì una politica caritatevole, espressa attraverso la fondazione e il sostegno di istituzioni assistenziali, tra cui l’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che divenne simbolo di una monarchia fondata non solo sul potere militare e politico, ma anche sulla pietà cristiana e su un ideale di giustizia sociale.
La peste del 1347–48 passò alla storia come Morte Nera. Proveniente dal Mar Nero, fu introdotta in Europa attraverso il porto di Messina, trasformando la Sicilia nella porta d’ingresso del repentino e nefasto contagio in Europa. L’impatto demografico fu devastante: si stima che perì circa un terzo della popolazione europea. Il trauma collettivo alimentò così visioni apocalittiche, processioni penitenziali e nuove forme di religiosità, mentre nell’arte fiorirono rappresentazioni della caducità della vita, come le Danze Macabre e i Trionfi della Morte.
Le Danze Macabre sono raffigurazioni diffuse in Europa tra XIV e XV secolo, soprattutto in Francia, Germania, Svizzera e Italia settentrionale, nate nel clima di angoscia seguito alla peste nera del 1347–48. Questi cicli pittorici e scultorei, spesso collocati in chiese, cimiteri e spazi pubblici, avevano la funzione morale e pedagogica di ricordare la caducità dei beni terreni e invitare alla conversione.
“Et ecce equus pallidus, et qui sedebat super illum nomen illi Mors, et infernus sequebatur eum” (Apocalisse 6,8).
Palazzo Abatellis (1495) fu la dimora di Francesco Abatellis, portuale del Regno e membro di una delle famiglie più in vista della Palermo tardo-medievale. Costruito su progetto dell’architetto Matteo Carnilivari, l’edificio, in stile gotico-catalano con influssi rinascimentali, è considerato uno dei capolavori dell’architettura civile siciliana del Quattrocento. Dopo la morte del committente passò alle monache di Santa Maria della Pietà e, in seguito alla confisca dei beni ecclesiastici, venne destinato a usi pubblici. Dal 1954 ospita la Galleria Regionale della Sicilia.
Guernica fu dipinta da Pablo Picasso nel 1937 per denunciare il bombardamento della città basca da parte dell’aviazione nazista e franchista durante la guerra civile spagnola. L’opera, attraverso figure frammentate e simboliche — il toro, il cavallo ferito, la madre col bambino, il guerriero caduto — è un’enorme tela in bianco e nero (349 × 776 cm) che traduce l’orrore della distruzione in un linguaggio universale, privo di retorica ma carico di pathos. Considerata una delle più potenti condanne della violenza bellica del XX secolo, è manifesto politico e icona antimilitarista, simbolo di memoria collettiva e di resistenza contro ogni forma di oppressione.
Crediti
Testo a cura di TACUS Arte Integrazione Cultura - Associazione di promozione sociale.
Immagini di Ellera
Ricerca storica e culturale condotta su fonti bibliografiche e documentarie.
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